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"La nostra Disneyland terra di famiglie inquiete"

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Messaggio Da kissthetulips Sab 28 Ago 2010, 14:19

Cinque giovani scrittori della Scuola Holden reinventano la patria di Topolino. Tema ricorrente i contrasti tra padri e figli e il tentativo di ricomporli nell'oasi di fantasia e creatività
EGLE SANTOLINI
«Nananaaaa na na na na»: come capita in tutte le gite scolastiche, i partecipanti piuttosto speciali al viaggio a Disneyland che andiamo a raccontarvi a un certo punto hanno cominciato a usare, oltre a un lessico comune, anche una colonna sonora collettiva. Nel caso «la canzoncina It's a Small World», spiega uno dei cinque, Simone Laudiero, «che nel parco viene cantata non mi ricordo più se da un gruppo di uccellini, di scoiattoli o di soldatini di piombo». Piano piano, quel «na na na» è entrato in testa a tutti: contemporaneamente, le difese di chi all'inizio si mostrava scettico cadevano e il balsamo zuccherino della regressione infantile otteneva il suo infallibile effetto. L'idea che è venuta alla Disney è originale e anche un po' perversa. Prendi cinque scrittori italiani emergenti, quattro usciti dalla Scuola Holden e uno (Luca Ricci) che in ambito Holden lavora, e mandali nel parco di Topolino a Parigi per vedere l'effetto che fa. Poi mettili tutti a scrivere dei racconti, lasciandoli liberi di inventare quel che gli pare e mantenendo soltanto il vincolo della location. Titolo dell'operazione: «Raccontami un sogno».

Motivo della scelta dei cinque novissimi: la celebrazione del «Festival della nuova generazione», per marcare l'arrivo a Disneyland Paris, accanto ai characters storici, di personaggi più recenti e perfino in 3 D, tipo Buzz di Toy Story, Remy di Ratatouille e Tiana della Principessa e il ranocchio.I cinque frutti della gita scolastica li abbiamo qui: si chiamano Perla di Emmanuele Bianco, Dentro i confini del parco di Simona Sparaco, A me neanche piacciono i pirati di Simone Laudiero, Lo spirito giusto di Luca Ricci, Facciamo testa o croce di Carla D'Alessio. Qualcuno (Laudiero) gioca il registro del dietro le quinte, un altro (Luca Ricci) prende spunto dal paradigma disneyano dell'animale antropomorfo per costruire una puntuta favola darwiniana, dove Cip e Ciop non sono esattamente i batuffoli iperattivi che fanno impazzire Paperino, molti si trovano a mettere in scena una certa distanza emotiva fra bambini e adulti, magari con l'happy ending (Carla D'Alessio) magari no (Sparaco): tutti si dicono toccati dall'esperienza, forse perfino frastornati; può perfino essere che qualcuno di quei racconti finisca per essere il nucleo di un romanzo che compreremo fra due o tre anni in libreria.

Sparaco praticamente giocava in casa: «Del mondo Disney sono una fanatica, quando mi hanno fatto la proposta non ci ho pensato un minuto. Ero già stata nei parchi di Burbank, di Orlando e di Hong Kong, e naturalmente anche a quello di Parigi. Però non ci avevo mai dormito dentro, e invece quello fa la differenza, perché un conto è starci un pomeriggio e un altro tre giorni: il bello è perdere il senso della realtà». L'albergo che l'ha ospitata, l'Hotel Cheyenne in stile western, è entrato infatti nel suo racconto, porte da saloon, mezzogiorni di fuoco e tutto; mentre molti dei suoi compagni hanno subito il fascino del ristorante della principesse, praticamente un'eden per bamboline sugli otto anni.Per un'entusiasta, uno che all'inizio mostrava le sue riserve, ma che poi ha trovato una chiave interpretativa. Luca Ricci:«Se ti trovi in un mondo tutto artificiale, sostitutivo della realtà, la sfida sta nell'andare a pescare gli elementi di squallore che rimangono nel quadro: i bidoni della spazzatura, il bambino che piange.

Quando mi sono messo a scrivere, volevo mantenere l'equilibrio, essere leggero ma anche un po' cattivo». Raccontano i cinque che il momento clou è stato l'incontro con Laurent Cayeula, un signore sui 35 anni architetto e con esperienze di teatro, che alla Disney lavora come imagineer, e spiegare che cosa vuol dire è poi arrivare al nocciolo della faccenda, perché gli imagineer sono quelli che prendono un personaggio o un film Disney e li trasformano in attrazione. «Un esempio perfetto di storytelling», lo definisce Sparaco, e come altro chiamare il processo per cui «se decidi di mettere sulla Main Street un negozio di caramelle devi ricostruirti il personaggio del caramellaio, la sua storia, le sue motivazioni»? Roba che in Europa neanche ci sogniamo. «E questo è niente», aggiunge Ricci. «Lo sa che il parco è costruito in modo che si percepisca, dall'entrata al luogo dove sono le attrazioni, un rimpicciolimento in scala? Roba dell'altro mondo». Letteralmente. Da quando sono tornati, i cinque hanno cominciato a sognare in technicolor: forse anche i famosi elefanti di Dumbo, molto rosa e molto psichedelici.


fonte: http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/309622/
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Messaggio Da Ospite Sab 28 Ago 2010, 16:42

Io comunque non ho capito niente... ma cos'è... un libro? Question
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Messaggio Da kissthetulips Sab 28 Ago 2010, 23:54

sì, sono dei racconti.

A me neanche piacciono i pirati

Simone Laudiero


A me neanche piacciono i pirati, pensa Luca mentre corre tra le palme. Con le mani cerca di proteggersi dai rami che gli colpiscono la faccia come schiaffi, ventagli di foglie appuntite che gli vanno dritte negli occhi. Una striscia di bruciore gli si accende sulla tempia. Luca si domanda se forse non farebbe meglio a rallentare.

L'ha ripetuto cento, mille volte da quella mattina, che non gli piacciono i pirati. Sono brutti, hanno i pantaloni del pigiama e gli orecchini, le loro pistole sembrano vecchi telefoni e sparano un colpo solo. Luca voleva tornare a Star Tours, ma l'hanno già fatto il giorno prima e la madre ha detto no. E poi il robot pilota fa paura a Linda. Hanno passato tutta la prima mattina a seguire principesse per fare contenta Linda, una principessa dietro l'altra fino alla nausea, senza perdersene nessuna. Ore e ore di caccia alle principesse e Luca non ha fiatato, ha fatto finta di niente anche mentre Linda sceglieva il costume da principessa.
«Vestito» ha detto Linda..
«Costume» ha ripetuto Luca «È di plastica.».
E la madre lo ha sgridato, mentre lui aspettava mezz'ora che Linda si decidesse. E poi dopo cinque secondi di Star Tours, con l'astronave che aveva appena fatto in tempo a decollare, Linda si è messa a piangere, e ha continuato a fare storie fino alla fine. Dopo si è inventata che i robot le facevano paura, perché non sapeva cosa dire, ma era solo una scusa per rovinare il turno di Luca. E poi toccava a Bruno scegliere, e ha scelto i pirati.

Una ragazza con il gilet rosso gli chiede qualcosa in francese, gli fa segno di sedersi composto e tenersi con le mani alla sbarra che c'è sullo schienale del sedile davanti. Luca afferra la sbarra e un attimo dopo il carrello si scuote, sembra fermarsi di nuovo, poi si infila in un tunnel senza luci..
«Pronti!» fa il padre ai tre figli, sfregandosi le mani come se tra i palmi macinasse eccitazione. La madre sembra meno convinta ma si procura un sorriso. Luca prova a fare lo stesso ma subito rinuncia, tanto non lo vede nessuno. Il tunnel intorno a loro diventa giungla. Si sentono solo le cicale, l'acqua che scorre e i sospiri di Bruno. In alto, dietro un ciuffo di palme, suo padre indica ai figli il fortino di legno, l'hanno visto?

Luca entra correndo nel villaggio e si fa largo tra un gruppetto di tre pirati particolarmente brutti. Uno grasso porta una bottiglia alla bocca, poi la allontana, la porta di nuovo alla bocca. Dietro ce n'è uno con la gamba di legno e un terzo più elegante con lo stivale poggiato su uno scrigno, che strabuzza gli occhi e digrigna i denti a ripetizione. Gli sembra di averli già visti questi tre, ma non ha tempo di fermarsi. Passa sotto il ponticello, rasenta le casette del paese, si infila dietro l'ultima e trova la parete vera. È di cemento coperta di stoffa blu, ma è aperta in molti punti per fare spazio a interruttori, contatori, tubi dell'acqua e cavi che salgono e scendono come liane. Luca inizia a scalare un tubo nero, mani e piedi che cercano i giunti mentre supera i tetti dei palazzi, arriva quasi a toccare il soffitto, sale ancora più in alto e trova la maniglia di una botola. La apre, si tira dentro scalciando, la richiude.

Ci ha anche pensato, a fare i capricci come Linda, mentre il carrello si addentrava nella giungla che puzza di cloro. Ma i genitori lo avrebbero zittito perché così rovinava i pirati a Bruno, e lo avrebbero sgridato perché si comportava come la sorella più piccola. Alla fine è stato zitto. Luca ha quell'età in cui si sbaglia tutto e non si può sbagliare niente.

È di nuovo notte fonda, si sentono le cicale dietro i pannelli di compensato. Una pozza d'acqua immobile riflette due file di spie verdi, si allarga intorno alle sue scarpe da ginnastica e sparisce dietro un pannello dipinto di bianco con dei numeri e una firma. Luca non si ferma a leggere, continua a salire su per una scala d'acciaio, raggiunge la sommità di un crinale color mirtillo e cielo. La roccia di plastica è umida e scivolosa. Luca ci striscia sopra, pancia a terra, fino a una lanterna gialla. Cerca una posizione stabile. La lanterna sta sospesa a un albero come un bicchierone quadrato pieno di thè luminoso. Accanto c'è un grappolo di cocchi, ma Luca si guarda bene dall'usarlo come appiglio. Ha imparato a spese del suo ginocchio che sono pesanti ma non sono molto bene assicurati. Si aggrappa a dei rami, forse sono piante vere. Premuta contro la sua pancia la roccia di plastica tradisce la vibrazione lenta di una nave. Luca si affaccia e più in basso vede un estintore, adagiato dietro una roccia come se fosse in agguato. Molti metri più in basso, il canale di acqua trasparente con la rotaia. A intervalli regolari si vede il fondo verde illuminato. Non si era accorto di essere salito così in alto.
Poi appare un carrello che prende la prima curva in velocità, mezzo tram e mezzo pedalò. Luca vede il vestito da Cenerentola che Linda si è fatta comprare, le calze bianche e il diadema che brillano, sono tutti proprio sotto di lui ma piccoli come passanti in strada quando guarda dal terrazzo, a casa. Accanto a Linda c'è la madre, più avanti suo padre con Bruno, e dietro due sedili vuoti dove Luca stava seduto fino a un minuto prima. Hanno tutti e quattro i nasi per aria, si stanno divertendo e ancora non si sono accorti della sua assenza.
Questa è la mia ultima possibilità, pensa Luca, se voglio provare a risalire prima che scoprano che non ci sono più.
Ma è troppo alto per saltare, e tra le ombre e il fogliame Luca non riesce a vedere da che parte potrebbe calarsi. Si domanda se non sarebbe meglio farsi vedere, rischiare le grida della madre e forse anche quelle del padre, ma è un pensiero che non riesce realmente a finire. C'è un'ombra in più accanto al carrello, una mano che spunta e si allunga verso il carrello. Non è un pirata manichino, è una persona vera che si sporge da un ramo.
E cerca di afferrare Linda.
Il corpo è nascosto da un mucchio di casse e reti, ma la mano sta aspettando la sorella. Senza pensarci Luca strappa un cocco, e tenendolo con entrambe le mani lo scaglia verso l'assalitore proprio mentre quello cerca di afferrare la sorella. Il cocco sfiora la mano, l'ombra sparisce tra le altre ombre, il lancio è stato perfetto, ma per completare il movimento Luca ha perso l'equilibrio. Si getta all'indietro per non cadere e scivola giù per il crinale di roccia bagnata, colpisce con il fianco un'altra roccia ma fa in tempo ad aggrapparsi. Riprende a scivolare, ma riesce a controllare la caduta e quando tocca terra cade in piedi. Dietro le rocce di plastica sente il carrello che cigola sui binari. Ce la può ancora fare.
A me neanche piacciono i pirati, pensa Luca mentre corre tra le palme. Con le mani cerca di proteggersi dai rami che gli colpiscono la faccia come schiaffi, ventagli di foglie appuntite che gli vanno dritte negli occhi. Una striscia di bruciore gli si accende sulla tempia. Luca si domanda se forse non farebbe meglio a rallentare, poi vede il carrello e si mette a correre più veloce.

Non sa da quanto sta correndo tra i pannelli di compensato e le impalcature di ferro e i massi di schiuma cercando di raggiungere il carrello con la sua famiglia, ma il percorso delle rotaie non può durare ancora a lungo. Dall'altra parte della giungla non c'è traccia del binario o del carrello, solo una parete di lamiera ondulata come quella di un cantiere e un cartello in francese che Luca non capisce. Ci sono dei punti interrogativi, dei teschi, cose di elettricità. Più in là c'è una porta, con altre scritte in francese ma meno spaventose. Luca prende coraggio, la apre e si infila dall'altra parte.

Di nuovo il porto, nel mezzo della battaglia. Si sente il tuono dei cannoni e la luce arancione delle fiamme appiccate dai pirati. Luca si trova ad affacciarsi con un gruppo di soldati che sparano a ripetizione da una merlatura. Sul binario sotto c'è un carrello di stranieri biondi fermo sotto un ponticello. Stanno con il naso per aria e non si accorgono della battaglia in corso. Luca calcola che la sua famiglia dev'essere già passata di là e continua a correre seguendo il binario. I biondi non si accorgono di niente, impegnati come sono a seguire la battaglia. Luca attraversa le strade facendo lo slalom tra gli assalitori che inseguono donne terrorizzate e una fila di condannati al cappio. Ha imparato a muoversi come un pirata, nessuno dei manichini riesce a fermarlo, nessuno straniero biondo lo sente passare sul ponte. Trova il varco tra le gobbe di plastica dipinta del fortino dei soldati, vi sgattaiola dentro e arriva alla parete foderata di stoffa blu notte. Dove finiscono i cavi dell'elettricità ci sono altre due porte. La prima è chiusa, la seconda si apre. Luca vi si infila dentro e richiude.

È notte, acqua che scorre e cicale. Luca si arrampica su per una rampa di legno e corda, si trova davanti una parete di tronchi, le mura di un fortino eretto nella giungla. Si ferma a prendere fiato, appoggiato a una botte. È tutto in miniatura, per sembrare ancora più lontano a quelli che passano: le lanterne, le bottiglie, la ruota del timone appoggiata in un angolo, anche i due soldati di guardia sono alti come lui. Dovrebbero essere di sentinella e invece stanno litigando, il primo spalanca le braccia e poi le richiude, l'altro porta la mano alla sciabola ma poi ci ripensa, poi cerca di nuovo la sciabola, ci ripensa. Da vicino gli si vedono le articolazioni sotto il collo, le palpebre da bambola che si aprono e si chiudono, le mani troppo nodose. Eppure la loro lite è vera, pensa Luca. I suoi genitori che litigano sono così: il collo gli diventa finto, gli occhi si muovono da soli, le mani diventano di legno.
Un carrello sta passando dal lato opposto del villaggio: sul primo sedile brilla il vestito azzurro di Linda. È un attimo, poi il carrello si inclina in avanti e si tuffa giù per la discesa. Luca riesce a distinguere le grida eccitate della sorella, e ricomincia a correre, salta giù dal fortino. C'è una botola proprio di fronte a lui e si apre senza fare storie. Luca scende giù per una scaletta di metallo strettissima, e pensa che stavolta è sicuro di arrivare prima del carrello.

Una ragazza con il gilet rosso gli chiede qualcosa in francese, gli fa segno di sedersi composto e tenersi con le mani alla sbarra che c'è sullo schienale del sedile davanti. Luca afferra la sbarra e un attimo dopo il carrello si scuote, sembra fermarsi di nuovo, poi trascina tutti in un tunnel senza luci.
«Pronti!» fa il padre ai tre figli, sfregandosi le mani come se tra i palmi macinasse eccitazione. La madre sembra meno convinta ma si procura un sorriso. Luca prova a fare lo stesso ma subito rinuncia, tanto non lo vede nessuno. Il tunnel intorno a loro diventa giungla. Si sentono solo le cicale, l'acqua che scorre e i sospiri di Bruno. In alto, dietro un ciuffo di palme, suo padre indica ai figli il fortino di legno, l'hanno visto?
Alla luce di una lanterna gialla come se fosse davvero piena di thè, ci sono tre marinai di cattivo umore. Due parlano tra il loro ma il terzo sembra distratto, sembra che guardi verso di loro, come se quelli che passano fossero la vera attrazione. È alto come gli altri ma sembra diverso, non ripete sempre lo stesso movimento, e non fa niente di piratesco come gesticolare, ridere con la testa all'indietro o sollevare un boccale. Luca punta i piedi contro lo schienale che ha davanti, prova ad alzarsi per vedere meglio, poi il sedile sotto di lui si impenna, la testa della madre sparisce e il carrello si tuffa verso il basso.
Io li odio, i pirati, pensa Luca mentre il carrello scorre in quello che dovrebbe essere il sotterraneo delle prigioni. I maledetti pirati lo guardano da dietro le sbarre, tendono le mani, gli urlano contro in inglese, forse in francese, per lo più sghignazzano. C'è un cane con un mazzo di chiavi in bocca, guarda i pirati e purtroppo per loro non si muoverà. Nessuno uscirà mai dalla prigione, pensa Luca, sono tutti bloccati lì con il loro movimento da ripetere all'infinito. Come le chiavi infilate nell'anello, possono fare un giro completo ma tornano ogni volta alla posizione di partenza. Luca si annoia anche per loro.
Il carrello si ferma un attimo dopo. Proprio accanto al sedile di Luca c'è un gradino quasi al livello dell'acqua, è l'inizio di una scala a chiocciola che si addentra nella parete. Sopra c'è una grata di ferro che sembra voler venire giù da un momento all'altro, intrappolando chiunque fosse così stupido da avventurarsi su per la scala. Ma è una grata finta, e non verrà giù.

Luca arriva in fondo alla scala di metallo, prende fiato, ricomincia a correre. È tornata la notte. C'è di nuovo silenzio e un telone del colore delle palme che lo separa dalla giungla. Si fa strada tra i cespugli, più avanti vede l'acqua che brilla tra i rami, con i nastri scuri dei binari e le luci delle lanterne che si riflettono. Il carrello della sua famiglia avanza lento come un tram nel traffico, e finalmente viene verso di lui. Luca abbraccia una palma e cerca la posizione migliore per tentare il salto.
Non appena la sorella sarà passata, e poi la madre, potrà afferrarsi al carrello e saltarvi dentro. Non avrà occasione migliore di questa. Allunga la mano. Mezzo metro più sotto, Linda guarda disgustata dei teschi ammonticchiati in uno scrigno, e non lo vede. Luca si sporge ancora di più, tende la mano pronto a saltare.
E in quel momento qualcosa picchia contro il bordo del carrello proprio dove sarebbe saltato, una noce di cocco gli rimbalza davanti agli occhi e colpisce la rotaia a pelo d'acqua con uno schiocco. È bastato il suono a spaventarlo, Luca perde l'equilibrio e ricade tra le piante. Il pavimento sotto i suoi piedi cede, e Luca fa un volo di due metri tra le palme.

Il carrello è fermo già da qualche secondo, bloccato all'uscita del cunicolo delle prigioni. Luca fissa la grata finta e si domanda se quando la tocchi è fredda. Il resto della famiglia guarda la sparatoria tra i pirati e i soldati a bocca aperta, come se fosse vera. Più avanti un carrello pieno di stranieri biondi è fermo sotto un ponticello e si diverte di meno. Tre giubbe rosse appostate su un tetto fanno fuoco. Una quarta si affaccia a guardare e poi sparisce.
Luca pensa che più noioso di così non potrebbe essere. Poi sente lo schianto, così forte che ricorda a Luca di quando l'armadio di Linda è caduto. E poi sente la voce.
«Aiuto!» chiama qualcuno. «Sono qui! Fatemi entrare!» Luca pensa che sia un pirata che parla, ma i pirati parlano inglese o francese, mentre questo ha detto «Sono qui! Fatemi entrare!» in perfetto italiano, non ci sono dubbi. Luca prova a sporgersi, per vedere se c'è qualcuno, ma la scala a chiocciola si avvita su se stessa e scompare subito alla vista.
Luca spinge lo sguardo nel buio, allunga la mano e cerca un appiglio, trova un cocco e scopre che si staccano molto facilmente. Scivola giù dal carrello, un piede sul gradino e l'altro che affonda in acqua. Sbatte con il ginocchio contro il bordo e si piega in avanti per il dolore. In quel momento il carrello si rimette in moto. Luca vorrebbe chiedere aiuto, ma si vergogna di farsi vedere in quella posizione, così si arrampica su per la scala a chiocciola e cerca di tagliare la prossima curva che farà il carrello.
Se fa in fretta potrebbe risalire senza che nessuno se ne accorga, pensa Luca, e si mette a correre.

Atterra su qualcosa di morbido, ma l'impatto gli fa uscire tutta l'aria dai polmoni, gli fa risuonare i denti e le ossa. Resta lì sdraiato a prendere fiato. Il carrello è perso. Sotto di lui ci sono dei teloni mimetici ripiegati come un gigantesco set di lenzuola. Luca pensa che se c'è un posto dove fermarsi è questo, e resta lì sdraiato ad ascoltare le cicale registrate, l'acqua che scorre, la vibrazione di nave sotto il pavimento. Poi un rumore di finestra che si apre, e un tintinnare di campanelli, metallo e vetro, rubinetti che si aprono e odore di sapone per i piatti. I pirati, Luca ne è abbastanza certo, non avevano il sapone, tantomeno per i piatti. Gira la testa a destra, poi a sinistra, e si accorge di un oblò di vetro smerigliato. Si avvicina, e gli arriva un odore di hamburger e di verdure speziate. Oltre un tubo profondo quanto Luca è alto, ci sono un paio di scarpe bianche e pantaloni bianchi che si spostano rivelando un corridoio di mattonelle e alluminio. Un carrello passa veloce come un'automobile, e poi le scarpe bianche sono di nuovo lì.
«Aiuto» grida Luca «Sono qui! Fatemi entrare!»
Le scarpe si fermano, poi un ginocchio e il volto di una ragazza. Spalanca gli occhi, non se l'aspettava di trovarlo lì.
«Aiuto» dice Luce, più piano.
Lei risponde qualcosa in francese, gli mostra un mazzo di chiavi e gli fa segno di non muoversi. Si apre il quadrato di luce di una porta, laggiù in fondo. L'odore di cibo cotto che ne esce ha il sapore della libertà.
E chi si muove, pensa Luca. A me neanche piacciono i pirati.
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Messaggio Da kissthetulips Sab 28 Ago 2010, 23:55

Dentro i confini del parco

Simona Sparaco


Michele si è infilato le cuffie dell'I-pod nelle orecchie per non sentire le grida. Grida stridule, stonate, impermeabili al fastidio di chi le ascolta. Tanto per cambiare, stanno litigando. Così, tra le note di una canzone di Kesha, ogni tanto s'inseriscono a tradimento anche un «Non ne posso più di te, Franco!» e un «Sei un'ingrata, Carla, un'isterica pazza!». Ma Michele tiene lo sguardo fermo su un foglio di carta, dove con un pennarello sta dando vita a uno dei suoi fumetti. È il giorno del suo compleanno, sette finalmente, e sente che presto sarà grande abbastanza da diventare immune ai loro ripetuti e snervanti teatrini. Nell'attesa di quel momento, riempie le sue ore solitarie di parole e sorrisi rassicuranti, messi in bocca a personaggi immaginari.

Intorno alla scrivania di Michele, intanto, nel taglio di sole proveniente dalla finestra, in mezzo alle particelle di polvere, sospesi nell'aria come tante piccole stelle, cominciano a delinearsi anche minuscoli squarci di luce. Infinitesimali, paiono quasi incandescenti. È molto difficile che un essere umano riesca a vederli. Sono le elipsi. Almeno, così le definì l'artista Jonathan Meyer quando, nel 1916, provò a riprodurle su tela. E sulle pagine di un diario, ne annotò perfino un'accurata descrizione: secondo Meyer, le elipsi sono creature innocue, dalla forma indefinita; generalmente vivono intorno alle opere d'arte, tra le pagine di un libro, sui fotogrammi di un film, intorno a una statua o in prossimità di un dipinto; prendono vita dalla creatività e dalla fantasia umana, ma non sono una proiezione di esse, sono esseri indipendenti, che nella maggior parte dei casi si spandono nell'aria senza riuscire a sopravvivere all'onda creativa che li ha generate. E se adesso Michele provasse a distogliere lo sguardo dal suo fumetto, forse, un tipo come lui, potrebbe anche riuscire a distinguerle, tutte quelle piccole elipsi, prossime al dissolvimento. Le elipsi, va anche detto, non sono sempre così effimere. Ci sono luoghi, in questo nostro sconfinato universo, dove la concentrazione di creatività e fantasia è così elevata e permanente, da consentire alle elipsi una lunga sopravvivenza.

Jay, a differenza delle altre elipsi, che poco s'interrogano sulla loro natura, ha la sensazione di vivere nel parco dall'inizio dei tempi. Ogni giorno si muove ignorata e indisturbata, tra le grida e le risate dei bambini, in fila per farsi immortalare insieme ai loro personaggi preferiti; attraversa le code per raggiungere le attrazioni, assiste alle parate di Paperino e Topolino, si tuffa nello zucchero filato, nelle borse delle mamme, infarcite di ciucci e pannolini; s'intrufola negli scaffali delle botteghe ricolme di canditi, per poi sorvolare il fiume del Far West, la casa dei fantasmi e il castello incantato con le sue principesse. Il mondo in cui vive è un'esplosione di fantasia, la stessa fantasia che come un ventre materno l'ha generata, eppure non riesce a farne pienamente parte. E non può neanche fare a meno di chiedersi se si possa davvero chiamare vita, quest'esistenza ai margini, questo restare sospesi in un limbo dalla natura indecifrabile.

A differenza di Jay, le altre elipsi partecipano alla gioia dei bambini e alla regressione degli adulti, che di colpo si riscoprono principi e pirati, streghe e principesse. Se ne stanno sospese nell'aria, senza sentire l'esigenza di entrare in contatto con il mondo degli umani. Gli basta lasciarsi trasportare dall'eco delle loro risate, così liberatorie, senza provare alcun disagio, né tantomeno invidia, nei confronti di un suono tanto naturale per un essere umano, quanto impossibile per un'elipsi.

Di solito, al calare della notte, quando il parco sprofonda nel sonno e i visitatori si ritirano negli alberghi circostanti, Jay e le altre centinaia di elipsi si raccolgono nel cuore di Fantasyland, e alcune di loro trovano riparo nell'attrazione del Piccolo Mondo, tra le bambole di tutti i paesi, che di giorno cantano e ballano nei loro costumi tradizionali, e di notte, immobili, si lasciano illuminare dal chiarore delle elipsi.

«Cosa sono?» non smette di chiedere Jay a Beta, la più grande e quieta tra le elipsi, riferendosi alle bambole-bambine del Piccolo Mondo. «E noi, cosa siamo?»
«Possiamo essere tutto» le risponde Beta serafica, dalla sponda del fiume, che attraversa i luoghi e le città in miniatura del Piccolo Mondo.
«Ma io voglio essere così» insiste Jay, avvicinandosi a una delle bambine di colore, per poi volare incontro a un'altra bambina, questa volta bionda, e subito dopo un'orientale, un'indiana, una sirena.
«E non è detto che tu non lo sia» la rassicura Beta, con uno scintillio di luce che è come un sorriso. «Sei esattamente quello che chi ti guarda vuole vedere».
Jay appare disorientata: «Ma chi può vedermi?»
Beta continua a sorriderle, senza rispondere.
«Perché sembro essere l'unica tra di voi a desiderare di avere una vita?»
«E questa non è vita, forse?» borbotta Beta, galleggiando nell'aria come una bolla. Fa una giravolta e poi si ferma. «Tu sei così indocile, Jay, perché la creatività sa anche essere inquieta, dolente e pericolosa» aggiunge poi, perdendo un po' della sua luce nell'oscurità del Piccolo Mondo. «Pericolosa?» le fa eco Jay, con spavento.
«La creatività è magia» tuona Beta, prima di allontanarsi per raggiungere le altre elipsi. «E tu non sai di avere il potere di cambiare il mondo.»

Michele non abbandona le sue cuffie per tutto il tragitto, così come Franco e Carla la loro discussione. Lungo l'autostrada, insieme alla musica di Hannah Montana, a fare compagnia a Michele, ampie distese di fiori di colza, di un giallo brillante, festoso, dove immaginare di correre e rotolare, scalzi, come puledri allo stato brado. Soltanto la vista dell'Hotel Cheyenne in stile western, una volta arrivati a destinazione, lo convince a spegnere l'I-pod.

Si tratta del selvaggio west di Buffalo Bill e Calamity Jane, ma Franco e Carla sono troppo presi dai conti da pagare e dalle dimenticanze da recriminarsi a vicenda per accorgersene. Per fortuna, le loro lamentele presto si confondono tra i mormorii di gioia e di stupore del flusso di famiglie che si riversa a ondate nella hall dell'albergo, e Michele ne approfitta per lasciarli soli alle prese con la fila del check in e per correre in esplorazione.

«Non ti allontanare troppo!» il monito severo di Carla lo raggiunge quando è già al ristorante, ma Michele chiude gli occhi, immaginando di essere un cowboy in un saloon, e lo stesso monito, ripetuto, si disperde nel vento di una calda giornata d'agosto di quasi due secoli prima.

Quando Michele riapre gli occhi, infatti, non ci sono più famiglie né bagagli, solo una porta a spinta, che si spalanca, sotto il colpo di una raffica di vento, sul piazzale polveroso di una cittadina del vecchio west, due balordi che si stanno sfidando a duello, e un gruppetto di donne, strette nei loro scialli vistosi, che assistono immobili alla scena. Tutto intorno, una quiete quasi irreale, interrotta solo dai fischi del vento e dai nitriti di un purosangue legato con una corda alla staccionata del vecchio patibolo, proprio al centro del piazzale. Michele si guarda meglio intorno e si accorge che dietro le finestre scricchiolanti delle case di legno, e alle sue spalle, all'interno del saloon, ci sono decine di occhi nascosti, in ansia, incollati al respiro dei due balordi. Un carro, trascinato a gran velocità da un paio di cavalli imbizzarriti, irrompe nella scena. Da dietro la tenda del carro, spunta la canna di un fucile, da cui parte il primo colpo di una vivace sparatoria, che si azzittisce solo quando la mano di Carla si posa sulla spalla di Michele, per avvisarlo che sono finalmente pronti per raggiungere il parco.

Eccoli lì: Topolino, Paperino, Pluto, e i personaggi delle nuove generazioni fare capolino dalla fiancata dell'autobus che deve accompagnarli all'ingresso. Questo mondo sembra creato apposta per concedere a Michele le sue evasioni, e il ragazzo se ne convince ancora di più una volta varcata la soglia dell'ingresso e raggiunta Main Street, la strada principale. In lontananza, si erge il castello incantato, tutto intorno il fascino di un'elegante cittadina statunitense dei primi del Novecento, con le sue impeccabili botteghe, i lampioni in ferro battuto, le aiuole fiorite, il carretto dei gelati, i binari del tram e la cura maniacale per ogni dettaglio. L'incanto della vista, per un attimo, sembra acquietare persino Franco e Carla, ma poi ci si mette di mezzo la piantina del parco e l'assoluto bisogno di prenderne possesso per cercare un percorso condiviso, e la tregua si interrompe. Così Michele, ancora una volta, chiude gli occhi, fa un bel respiro, e quando li riapre, al posto delle centinaia di visitatori, trova soltanto la routine di un tranquillo sabato pomeriggio, in una soleggiata cittadina americana di inizio secolo: una coppia di distinte signore, in lunghi vestiti ricamati, che passeggiano al riparo dei loro graziosi ombrellini; un gentiluomo che si prende la briga di salutarle, sollevando il cappello con un accenno di inchino; e intanto, dietro i riquadri delle vetrine, prendono vita le scene di un tempo lontano, rassicurante, come una robusta pasticcera intenta a sfornare una teglia di biscotti e un'anziana sarta che sta ricamando un corredo.

Peccato che Franco e Carla non possano vedere tutto questo. Anche quando non litigano, restano come impigliati in una ragnatela di cose non dette e coraggi mancati che alla lunga diventa estenuante. Certe volte provano a liberarsi, si rivolgono a Michele, vorrebbero trovare conforto nel suo entusiasmo, tirargli fuori di bocca qualche commento di gioia o stupore, ma è come tentare di estrarre del ferro a mani nude da una miniera, perché Michele non è come gli altri bambini, lui risponde a monosillabi. Tra il suo mondo e quello dei genitori ha finito per tracciare una distanza. E puntualmente, di fronte a quei monosillabi e a quell'aria assente e svagata del loro unico figlio, i due si sforzano di minimizzare, perché Michele è un bambino particolare e l'hanno sempre saputo, così come hanno sempre cercato di non dare troppo peso alle sue stranezze, senza soffermarsi più di tanto a cercare di comprenderle.

In realtà, i sorrisi di Michele sono tutti interiori. Lui, le meraviglie del parco le sta vivendo a pieno, forse come nessun altro. Probabilmente è l'unico a passeggiare nel castello convinto di trovarsi nel bel mezzo di un ballo di gala, circondato solo da cortigiani, principi e principesse, e ad arrivare ad Adventureland, pensando di attraversare davvero il Mar delle Antille tanto da avvertire sul viso, tra i fragori della battaglia, anche una raffica di vento e salsedine. Le musiche di sottofondo gli permettono di annebbiare qualsiasi altro suono. Lo accompagnano nel passaggio tra i diversi mondi, sovrapponendosi l'un l'altra, solo per un istante, in un perenne avvolgimento. Dalla Londra di Peter Pan alla casa di Pinocchio, Michele in questi mondi riesce a immergersi completamente, fino a vedere cose che agli altri sfuggono, e a dimenticare tutto il resto. A cominciare da Franco e Carla.

Jay ha appena scoperto di avere il potere di sottrarre il buonumore ai visitatori del parco. Il suono delle risate, lo stupore infantile, i brividi di eccitazione. Non può provare queste sensazioni, ma può strapparle ai loro legittimi proprietari, gli stessi che dall'inizio dei tempi non hanno fatto che ignorarla. E così non resiste alla tentazione di lanciarsi in questa nuova avventura.
Nessuno, neanche Beta può fermarla. Si limita ad osservarla, come si osserverebbe qualcosa di inevitabile, un'onda gigantesca all'orizzonte. Jay comincia dai bambini. Sono i più incontenibili e scalpitanti, le loro grida si riconoscono a distanza. Li punta, per poi assorbire il loro buonumore. Ed è come succhiare una caramella dolcissima senza poterne gustare il sapore.
Il gioco va avanti per l'intera mattinata. Mentre le altre elipsi galleggiano inermi e impotenti nell'aria, a poco a poco il parco comincia a svuotarsi di tutti i suoi sorrisi.

All'inizio nessuno sembra farci caso, neanche Michele e i suoi genitori: qualche risata in meno, qualche faccia contrita in più; non sembra esserci una grande differenza. Intanto Michele ha seguito Carla e Franco fino all'area del parco dove si celebra il futuro, così come l'hanno immaginato Jules Verne, Leonardo Da Vinci e George Lucas. Qui, Franco comincia a dare i primi segni di una possibile regressione e tenta come può di convincere Carla a salire con lui sulla navicella dello Space Mountain. Sembra l'inizio di una nuova tregua.
Michele promette di aspettarli all'uscita dell'attrazione, annuendo più volte, ma in realtà è completamente rapito da quello che accade nella volta celeste. C'è in corso una battaglia intergalattica, una cosa che Franco e Carla non potrebbero capire: navicelle luminose che sfrecciano nell'oscurità, lanciando missili incandescenti. Sopra la testa di Michele si spande l'universo, come se qualcuno avesse appena steso un telo nero sopra gli edifici in stile retro-futurista e le attrazioni. Le stelle non sono mai state così vicine, si muovono come fossero tante piccole lucciole.

A un certo punto, Michele non può fare a meno di seguirne una. C'è qualcosa di umano in quel luccichio. E, quasi senza accorgersene, finisce per uscire da Discoveryland, fino a ritrovarsi nella piazza centrale, alla fine di Main Street, tra le signore a passeggio con i loro ombrellini e le prime automobili con a bordo Topolino e Minnie. Michele non sa più distinguere tra cosa è reale e cosa non lo è. Ma di sicuro sa che questa piccola lucciola, che a Discoveryland sembrava una stella e che ora vuole essere seguita, non fa parte di questo mondo.

Nella piazza è calato un insolito silenzio. I personaggi del parco, da Pippo a Winnie the Pooh, tentano come possono di strappare un sorriso a un gruppo di bambini stranamente disinteressato. Michele segue la lucciola fino a Frontierland. Anche qui il silenzio si sta espandendo, come una nebbia fitta e gelida. Il battello a vapore è appena salpato dal molo, con a bordo, insieme ai visitatori, anche le figure più disparate. C'è un giovane che a Michele fa venire in mente Tom Sawyer e una robusta signora che assomiglia a Molly Brown; un gruppo di minatori dall'aria diffidente e una decina di invitati a un banchetto di nozze, con un'elegante sposa in pizzo e taffetà. Ma per la prima volta da quando è entrato nel parco, Michele ha la sensazione che tutte queste creature, provenienti da un'altra epoca e da un altro mondo, ora lo stiano osservando con un che di implorante nello sguardo.

C'è una bambina sulla riva del fiume. Una bambina che avrà più o meno l'età di Michele e che potrebbe sembrare una visitatrice come tante, ma non lo è, perché tiene tra le mani un sacco di iuta che nasconde qualcosa di disumanamente luminoso.
La bambina sta fissando una famiglia di visitatori seduta su uno dei tavoli della Steak House vicino al fiume. Padre, madre e tre bambini, dai quattro agli undici anni. Stanno ridendo, di quelle risate ridondanti, irrefrenabili. A un certo punto, le loro facce smettono di ridere, ma la risata continua ad echeggiare per qualche secondo nell'aria, e all'improvviso appare come una scia di luce, un arcobaleno dorato che precipita nel sacco di iuta della bambina, fino a ingrossarlo ancora di più. E la risata di colpo s'interrompe.
Ora la bambina solleva lo sguardo, fino ad incontrare gli occhi increduli e turbati di Michele. Entrambi restano immobili e in silenzio per alcuni istanti, poi Michele avanza lentamente verso di lei, senza perderla di vista. A questo punto la bambina prova a spiccare il volo, ma non ci riesce, sembra appesantita dal sacco e sul suo volto è comparsa una smorfia di fastidio. Rinuncia all'idea di volare e comincia a correre verso la casa dei fantasmi ai confini di Frontierland, per sfuggire allo sguardo di Michele.
E mentre schizza veloce verso il giardino abbandonato, all'improvviso debole e spaventata, Jay non può fare a meno di chiedersi chi possa essere quel bambino di cui ha incrociato lo sguardo, come se fosse possibile che qualcuno, tra gli umani, riesca davvero a vederla.

Quando Franco e Carla scendono dalla Space Mountain, i loro occhi sorridono. Franco di colpo si ferma e le afferra una mano. Carla abbassa lo sguardo, si sente a disagio: «Andiamo da Michele, è tardi» mugugna, cercando di sottrarsi alla presa.
«Mi sono divertito» ammette Franco con una dolcezza carica di aspettative, continuando a cercare lo sguardo della moglie. «E non è stato così difficile come pensavo.»
«Si è fatto tardi» insiste Carla, ritraendo la mano. Poi si guarda intorno, e per prima si accorge che sul piazzale non c'è più traccia di suo figlio. Lo cerca, ma inutilmente. E in un attimo si lascia assalire dal panico: «Michele!» comincia a gridare.
«Tesoro, tranquilla, sarà qui intorno. Ha sette anni ormai, non è più un bambino piccolo.»
Ma Carla non sente ragioni: «Sai benissimo come la penso al riguardo…» gli grida contro. «Michele! … Michele, dove sei?»
«Adesso calmati, Carla. Andiamo a cercarlo.»

Nel frattempo, Michele ha raggiunto l'incolto giardino della casa dei fantasmi, attraversando di soppiatto la fila dei visitatori, che, con le loro facce ormai inespressive, attendono di entrare.
Jay si è fermata ai piedi di una statua mutilata e decadente. «Chi sei?» gli domanda, cercando di riprendere fiato.
«Mi chiamo Michele.»
Le altre elipsi, un po' alla volta, li stanno raggiungendo. Jay scorge le loro luci in lontananza, mentre Michele si volta e trova una moltitudine di figure che si stanno avvicinando. Sono tutti i personaggi che ha visto da quando è entrato nel parco: dai frequentatori del saloon alle signore con l'ombrellino di Main Street, le lucciole, le navicelle, i cortigiani, i minatori, le principesse.

Avanzano tutti insieme, lenti e sfiancati, con gli occhi sempre più imploranti. «Cosa tieni in quel sacco?» domanda Michele alla bambina.
«Come puoi riuscire a vedermi?»
«Ti vedo eccome, e so che in quel sacco nascondi qualcosa di molto importante.»
«Quale sacco?» ribatte Jay sbalordita.
«Il sacco che tieni tra le mani.»
«Quali mani?»
«Le tue.»
«Ma io non possiedo delle mani.»
«Sì che ce le hai, sei una bambina.»
Jay strabuzza gli occhi, e non riesce a trattenere un sorriso: «Una bambina, hai detto?»
«Sì, certo, una bambina. E avrai più o meno la mia età» conferma Michele, quasi con imbarazzo. «Una bambina pericolosa,» aggiunge Beta, avvicinandosi a Jay, come la più grande e quieta tra le elipsi. Anche Michele la riconosce: è la piccola lucciola che l'ha guidato fino a Frontierland.
«Devi liberare quei sorrisi, Jay» le intima Beta. «Sono loro che ci tengono in vita. Senza quei sorrisi, questo mondo non potrebbe sopravvivere, e noi moriremmo con lui.»
Le elipsi emettono i loro flebili luccichii, Michele si volta e vede tutte quelle figure chinare il capo, in segno di assenso.
«Anche tu ti senti debole» continua Beta, rivolgendosi a Jay «e non puoi negarlo. Credevi di far loro un dispetto, invece hai fatto un torto a te stessa e a tutte noi. Eri certa che ti ignorassero, invece sono loro che ti tengono in vita, perché credono in te e te lo dimostrano ogni giorno, anche se non te ne sei mai accorta prima. Ora apri quel sacco, Jay, o sarà troppo tardi.»
Jay stringe il sacco di iuta tra le mani, con una smorfia di disagio, mentre Michele assiste all'intera scena senza riuscire a muovere un dito.

Non molto lontano dalla casa dei fantasmi, Carla e Franco sono ancora alla ricerca di Michele, e l'ansia si fa sempre più ingombrante, tanto che a un certo punto Carla non resiste più, si ferma e scoppia a piangere. Franco l'accoglie tra le braccia, lei gli si aggrappa al petto per non perdere l'equilibrio: «È il suo compleanno» balbetta tra i singhiozzi. «E qualcosa mi dice che ci ha mollati qui, perché non ci sopportava più…»
«Ma cosa dici?» la rassicura Franco, asciugandole le lacrime. «Come puoi pensare che ci abbia mollato? Magari è andato in albergo. In ogni caso lo troveremo, non comportarti come la solita esagerata.»
«No, Franco, ascoltami…» insiste Carla, con gli occhi iniettati di preoccupazione. «Conosco nostro figlio. E so che se ne è andato.» Poi s'interrompe, in un lungo sospiro, e torna a rivolgersi al marito con un'aria più colpevole: «Ti rendi conto che non abbiamo fatto altro che litigare da quando siamo partiti? Non facciamo che litigare, ormai! E fingiamo persino che sia normale il fatto che Michele ci rivolga a malapena la parola. La verità è che non ci sopporta, Franco. Non lo capisci?»
Franco scuote la testa, ma non riesce a nascondere il timore che ci sia un fondo di verità nelle parole della moglie. Con Michele si procede per tentativi, e quelli di Franco non sempre vanno a buon fine. Sul suo sguardo ora è calata l'ombra di tutte le volte che ha preferito evitarlo. Il rimorso di Franco ha il suono di tutte le parole che non è mai riuscito a dirgli. «Calmati, Carla» eppure continua a ripetere alla moglie con tono rassicurante. «Continuiamo a cercarlo.»

Il silenzio del parco si è fatto soffocante. Le elipsi, con tutti i loro timori e le loro speranze, si fanno intorno a Michele, mentre Jay, in piedi di fronte a lui, continua a tenere il sacco di iuta stretto nelle mani, come paralizzata dalle rivelazioni di Beta.
«Libera quei sorrisi» le dice Michele, avanzando lentamente verso di lei.
«Volevo solo avere una vita anche io…» confessa Jay, senza più riuscire a trattenere le lacrime. Poi, un urlo in lontananza lacera il silenzio. Tutti, visitatori ed elipsi, si voltano verso Franco e Carla, che hanno appena riconosciuto nel giardino della casa dei fantasmi la figura del loro unico figlio. Hanno il fiatone e le lacrime agli occhi mentre corrono incontro a Michele: «Dove eri finito? Ti abbiamo cercato dappertutto!»
Franco aiuta la moglie a scavalcare la transenna della fila, e anche se Michele non lo ammetterà mai, prova una fitta allo stomaco quando la madre si lancia verso di lui per abbracciarlo.
«Sono stata così sciocca a pensare che ci avevi abbandonati» ammette Carla, singhiozzando e ridendo al tempo stesso, e dietro di lei anche Franco comincia a fare altrettanto, mentre con le braccia cerca di stringerli entrambi.
Jay li osserva, e non può fare a meno di allentare la presa sul sacco di iuta, che in un attimo si apre, liberando nell'aria un'eruzione di luce.
Di colpo, l'intero parco esplode in una risata sonante.
Come un tuono, che lascia storditi e confusi.
Franco e Carla si guardano intorno senza capire: «Cosa è stato?» Possibile che la loro scena di intimità famigliare abbia provocato una tale ilarità? Non possono certo immaginare cosa si nasconde dietro il buonumore ritrovato, e non possono neanche vedere lo spettacolo che solo a Michele sembra concesso: centinaia di elipsi, nelle vesti dei personaggi più disparati, che in un attimo ritrovano tutta la loro energia, saltando e festeggiando, con entusiasmo infantile.

Mentre Jay, la più bambina di tutti, la più simile ai bambini di questo tempo, è rimasta immobile, con il sacco vuoto tra le mani e un'espressione interdetta. Michele non resiste e le corre incontro, sotto lo sguardo confuso dei genitori.
«Io posso vederti» le ripete ancora una volta, prendendola per mano. «So come ti senti. Il mondo là fuori è molto diverso da qui, ma se vuoi proprio conoscerlo, puoi venire via con me. Ti prometto che i miei sorrisi e la mia fantasia ti terranno in vita.»
«Dio, Franco» sussurra Carla preoccupata al marito «vedi anche tu quello che vedo io? Michele sta parlando da solo.»
«Ssshhh, Carla» minimizza l'uomo, con un sorriso contratto. «Non ti preoccupare, non è niente.»

Durante il viaggio di ritorno, Michele non ha le cuffie dell'I-pod conficcate nelle orecchie e neanche lo sguardo perso a immaginarsi scorazzante tra i campi di colza come un puledro selvaggio, ma è entrato da due giorni nel suo settimo anno di età, e si prepara ad affrontarlo con una nuova amica, tanto che ora le sta anticipando sottovoce le sorprese che le riserverà il mondo.
Il sorriso di Jay non è mai stato così luminoso dall'inizio dei tempi: «Di che colore hai detto che sono i miei capelli?» Sarà almeno la decima volta che glielo domanda. Ma Michele è un tipo paziente, altrimenti come farebbe a sopportare Franco e Carla, che, tanto per cambiare, hanno appena ripreso a discutere?
Per fortuna a tratti s'interrompono, giusto il tempo di gettare un occhio sul sedile posteriore, dove il loro unico figlio continua a parlare da solo dall'inizio del viaggio.
«È un amico immaginario» minimizza Franco, accarezzando affettuosamente la spalla di sua moglie. «Tu, da bambina, non l'hai mai avuto un amico immaginario?»
Carla solleva le sopracciglia, perplessa, senza staccare gli occhi dallo specchietto retrovisore, che ora incornicia il volto del ragazzo con le labbra stropicciate in un continuo sussurro.

Intanto, alle loro spalle, in fondo alla strada, il parco si rimpicciolisce sempre più. E se adesso Michele si voltasse indietro un momento, forse, un tipo come lui, potrebbe anche riuscire a vederla, quella barriera luminosa, che protegge il regno della magia e il suo castello come una gigantesca bolla.
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Messaggio Da kissthetulips Sab 28 Ago 2010, 23:55

Lo spirito giusto

LUCA RICCI
Il padre di Osvaldo era uno scoiattolo adulto – in termini scientifici Sciurus vulgaris della famiglia degli Sciuridae – con la coda lunga e vaporosa che fremeva a ogni strepito, quasi fosse un'antenna in grado di captare potenziali minacce e lanciare l'allarme: guai in vista!
«Posso andarci papà?»
«Toglitelo dalla testa.»
«Ma perché no?»
«Perché dobbiamo fare scorta di noci, ghiande e frutta per l'inverno.»
Osvaldo gettò uno sguardo al gigantesco mucchio di cibo che avevano già accumulato nel nido.
«Abbiamo tanta roba da sfamare tutti gli scoiattoli del circondario.»
«Sei un ingenuo, Osvaldo.»
«Non abbiamo forse racimolato più cibo di tutti?»
«Una parte di questo cibo verrà spazzolato dagli uccelli. Sempre che prima qualche donnola non spazzoli noi.»
«Ogni estate è la stessa musica.»
«Che cosa vuoi insinuare?»
«Ti diverti a terrorizzarmi con la storiella della catena alimentare.»
«Storiella?»
«Non ho mai incontrato una donnola in vita mia!»
«Anche se fosse successo non avresti potuto raccontarlo a nessuno. Quegli animali sono carnivori.»
«Se tutti hanno bisogno di mangiare, c'è qualcosa che non torna. I vegetali sono mangiati da noi, noi siamo mangiati dalle donnole, ma i vegetali che mangiano?»
«I vegetali sono autotrofi.»
«Cioè?»
«È una parola che deriva dal greco e indica quegli organismi che si nutrono di se stessi.»
«I vegetali sono cannibali?»
«In un certo senso. Ma non si mangiano tra di loro, si limitano ad auto-produrre ciò che gli serve grazie alla luce, all'aria e all'acqua.»
Osvaldo sembrò riflettere per circa dodici secondi sulla lezioncina che suo padre gli aveva impartito.
«Vorrei solo raggiungere Disneyland Paris. Posso andarci passando da un albero all'altro.»
«Sei ancora troppo piccolo per allontanarti.»
Osvaldo mostrò al padre i suoi artigli curvi e aguzzi.
«Non c'è pericolo che caschi.»
«Lo dicevano anche i figli di tutte le sottospecie di roditori che nel corso dei secoli si sono estinte.»
«Non m'interessano le tue macabre statistiche.»
«Sopravvivere t'interessa?»
Osvaldo sospirò e, per consolarsi, si mise a rosicchiare una ghianda più grossa di lui. Poco più in là, Disneyland si estendeva a perdita d'occhio in un irresistibile scoppio di luci.

La madre di Gigliola era una donnola adulta – in termini scientifici Mustela nivalis della famiglia dei Mustelidi – con due occhi piccoli e scuri simili a bottoni che erano sempre sul punto di dire: in allerta!
«Perché ti sei innamorata di papà?»
«Oh, non mi sono proprio innamorata di lui. L'ho conosciuto nella stagione dell'accoppiamento.»
«Wow, romantico.»
« È la natura.»
Gigliola fece una piccola pausa teatrale e poi sparò a zero. «Papà non ti sembra insopportabile?»
«È molto saggio.»
«Insopportabilmente saggio?»
«Vuole solo proteggerci. Il mondo non è fatto per le donnole.»
«Ma Disneyland non è il mondo.»
«Ancora con questa storia?»
Gigliola fece capolino dalle pietre che costituivano il loro riparo e guardò in direzione del parco. Le spirali delle montagne russe e le guglie dei castelli si stagliavano come glifi sul cielo dorato dell'estate.
«Che male c'è?»
«Se tuo padre la considera una cosa avventata, un motivo ci sarà.»
«Dice che ci sono un sacco di volpi là fuori.»
«Vedi?»
«Ma io non ho paura delle volpi.»
«E sbagli. Sono più grosse di noi, più rapide e perfino più furbe.»
Gigliola alzò gli occhi al cielo. Tra poco sua madre avrebbe ripetuto a pappagallo le teorie di Charles Darwin e il fatto che in natura vincesse sempre il più forte: ciò che suo padre non smetteva mai di ripetere.
«C'è solo quel bosco tra noi e la recinzione del parco. Potrei essere dall'altra parte in un battibaleno.»
«Quel bosco non è affatto innocuo come potresti pensare.»
«Ma guardalo: è completamente sgombro. Cosa mai potrebbe succedermi?»
«Te l'ho detto che le volpi sono più furbe di noi. Ci fanno credere che il loro regno sia un posto rassicurante e poi ci mangiano in un sol boccone.»
«Non capisci che è proprio per questo che vorrei andare a Disneyland? Qui la selezione naturale è spietata, la natura è matrigna.»
«La natura è la natura. Non ammette obiezioni di sorta, tanto meno da una piccola donnola insolente come te!»
Gigliola voltò le spalle alla madre e si mise a lisciarsi la pelliccia fulva. Metodica. Concentrata. Gustandosi il calore prezioso emanato del suo stesso corpo. Come dentro una bolla, che lasciava fuori tutto il resto.

Il fratello di Lucio era una volpe ormai adulta – in termini scientifici Vulpes vulpes della famiglia dei Canidae – dai passi felpati e le movenze circospette che sembravano formulare un'unica, martellante domanda: chi va là?
«Magari riuscirei a confondermi tra tutta quella gente vestita da animale.»
«Tu sei matto.»
«Non credo che là dentro caccino la volpe.»
«È pur sempre un insediamento umano.»
«Non ti è mai venuta la curiosità di andarci?»
«Te l'ho ripetuto mille volte: dobbiamo stare alla larga dagli uomini.»
Lucio considerava suo fratello soltanto un pavido. Il bosco era il loro territorio – l'avevano segnato palmo a palmo – e confinava direttamente con il parco divertimenti. Sarebbe stato fin troppo facile andarvi a curiosare un po'. Proprio in quel momento un fragore di risate li raggiunse.
«Non senti come si divertono?»
«Te lo chiedo per piacere: non andare. Se non vuoi farlo per me, fallo almeno per la memoria dei nostri genitori.»
Lucio abbassò il muso, non trovando argomenti validi per controbattere. Qualche tempo prima alcuni bracconieri avevano fatto irruzione nel bosco. Non era servito a nulla scappare, il terreno umido aveva conservato le impronte di molte volpi. Era stata una carneficina.
«Lucio, le nostre pelli sono pregiate.»
«Questo lo so.»
«Vuoi finire sulle spalle di qualche signora alla prima dell'opera?»
Lucio scosse la testa.
«Vuoi essere catturato perché dei signorotti a cavallo si dilettino a darti la caccia?»
Ancora una volta Lucio scosse la testa.
«Fidati di me. Dietro ogni uomo, anche il più mite, potrebbe nascondersi un cacciatore.»
«Ma allora la nostra esistenza a cosa si riduce? Sgobbare tra i campi alla ricerca di qualcosa da mangiare per sopravvivere?»
«Anche per gli uomini funziona così.»
Lucio sapeva che le argomentazioni del fratello erano inattaccabili, eppure a volte pensava che il rischio sarebbe stato meglio dell'impotenza.

Osvaldo abbandonò il nido alle prime luci del mattino. Aveva percorso mentalmente la strada che lo separava da Disneyland parecchie volte. Sarebbe passato da un ramo all'altro fino al parco. Restare abbarbicato ai pini silvestri e agli abeti rossi gli pareva una precauzione più che sufficiente per evitare brutti incontri. Per quanto giovane fosse, era nato per saltare e aggrapparsi.
Prese una rincorsa e iniziò la sua avventura. Gli alberi nei paraggi del nido non gli dettero troppi problemi. Ma a mano a mano che si allontanava dal suo territorio cominciò ad avere paura. Su quei rami sconosciuti, spesso fragili e traballanti, saltava quasi alla cieca, senza sapere dove sarebbe atterrato. Si fece forza pensando alle attrazioni del parco.
Quei pensieri gli fecero quasi perdere l'equilibrio e dovette aggrapparsi alla corteccia di un tronco per non scivolare giù. Sarebbe stato un peccato cadere proprio adesso, dopo tutta la strada percorsa. Poi vide il salto che lo aspettava. Una vera e propria voragine. Chiuse gli occhi e si lanciò. Quando sentì che le zampette posteriori planavano sul vuoto era troppo tardi per tornare indietro. Mancò il ramo e piombò nel folto del bosco, proprio a un passo dalla recinzione. Cercò di riprendersi in fretta. Ma sapeva che la caduta era stato rumorosa e che i predatori l'avevano sentito.
Il muso di Gigliola spuntò da dietro un sasso. Avrebbe voluto muoversi ma era a sua volta tenuta in scacco da Lucio, poco più indietro.
Osvaldo, che era l'anello debole, tentò il tutto per tutto.
«Ragazzi, manteniamo la calma, ok?»
Gigliola non sapeva se gettarsi sulla preda o scappare dal predatore.
«Sono calmissima.»
Lucio teneva entrambi sotto controllo. Pronto allo scatto, una molla tesa.
«Non provate a muovervi altrimenti siete fregati.»
Osvaldo insistette nel suo lavoro di diplomazia.
«Che ne dite di fare quattro chiacchiere?»
Gigliola non sembrava convinta.
«Non mi pare che tu sia nella posizione per aprire un tavolo di trattative.»
Lucio si sentì in dovere di fare qualche puntualizzazione.
«Se è per questo nessuno di voi due è in grado di stabilire le priorità all'ordine del giorno.»
Osvaldo deglutì a fatica e cercò di alzare la voce.
«Stabiliscile tu, volpe.»
Gigliola si girò timidamente verso Lucio.
«Sì, che intenzioni hai?»
Lucio si sforzò di ragionare ad alta voce.
«Io voglio soltanto andare a Disneyland Paris. Quindi, adesso comincerò a muovermi.»
Osvaldo rabbrividì.
«Se è per questo anch'io stavo andando lì. Ma non puoi muoverti per primo.»
Gigliola cercò di far valere le proprie ragioni.
«Volevo andare a Disneyland anch'io. Però vi avverto: non ho intenzione di muovermi per seconda.»
Lucio fece un balzo elegante verso Gigliola che si diresse rapida verso Osvaldo che provò invano a risalire sopra l'albero più vicino. I tre animali erano bloccati. Congelati nei loro ruoli, di vittima o carnefice. Non si poteva andare contro l'istinto, e l'istinto suggeriva loro di scappare o inseguire, di essere predati o predare, di morire o vivere.

Il padre di Filippo era un uomo adulto – in termini scientifici Homo sapiens sapiens della famiglia degli Ominidi – la cui unica, arcigna e profondissima ruga sulla fronte stava costantemente a significare: dov'è la fregatura?
Scalò le marce della Citroen, mise la freccia e svoltò con pignoleria verso il parcheggio del parco. Occupato il primo stallo disponibile mise in folle, spense il motore, tirò il freno a mano e si tolse la cintura di sicurezza con un sospiro. Agnese (la madre di Filippo) gli parlò, guardando se stessa nello specchietto sopra il cruscotto.
«Se non sei nello spirito adatto possiamo anche tornarcene in albergo.»
«Non sarò mai nello spirito adatto per trascorrere un'intera giornata dentro a uno stupido parco.»
A quel punto Filippo appiccicò la gomma da masticare sotto al sedile e scese dalla macchina. Quando si furono messi in fila per entrare, suo padre emise un grugnito. Agnese, non potendo contare sullo specchietto della macchina, fu costretta a sostenere il suo sguardo.
«E adesso che c'è?»
«Ho finito i contanti.»
«A me è rimasto qualche soldo in borsa.»
«Qualche soldo? Là dentro ci spenneranno. Vado a fare un prelievo al bancomat. Voi rimanete in fila.»
«Ok.»
«Non fatevi superare dai furbacchioni qui dietro.»
Agnese gettò un'occhiata perplessa all'innocuo gruppetto di bambini alle loro spalle (probabilmente una gita scolastica).
Filippo invece si fissò la punta delle scarpe, imbarazzato dall'atteggiamento del padre. Quando furono dentro, Filippo non sapeva decidere da che parte andare. Ai lati della piazza al cui centro campeggiava maestoso il castello della Bella Addormentata si aprivano le varie aeree tematiche. Decidere non era facile. Non sarebbe stato senza conseguenze. Suo padre sbuffò.
«Oh, non farla tanto lunga.»
«Non so davvero da dove incominciare.»
«Un'attrazione vale l'altra.»
Agnese stava per dire qualcosa, ma poi ci rinunciò. Filippo girava su se stesso con gli occhi chiusi e l'indice alzato. Si sarebbe fatto guidare dal destino (anche se suo padre avrebbe parlato di mera casualità).
«Andiamo di là!»
«Ok, speriamo solo che ci siamo dei ristoranti economici da quella parte.»
Filippo vide la giostra ispirata al Paese delle Meraviglie e corse a posizionarsi in una delle tazze giganti che tra poco avrebbero preso a girare all'impazzata. Suo padre (Agnese al suo fianco, anche se un poco discosta) stava per seguirlo riluttante quando sgranò gli occhi.
Nella tazza c'erano anche uno scoiattolo, una donnola e una volpe. Qualcuno del gruppo gli fece un fischio.
«Salta su, non sapevi che la fantasia è una specie di armistizio?»
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Messaggio Da kissthetulips Sab 28 Ago 2010, 23:56

Perla

Emmanuele Bianco

Un bel sole sorge su Disneyland. Come sempre. L'aria è fresca, pulita. Perla si sveglia prima della madre e come prima cosa apre le tende, facendo segno con la mano alla luce: entra, prenditi tutto.
«Che ore sono, tesoro?»
«Le otto spaccate» risponde Perla.
«Mmm… è già ora?»
«Mamma, certo che è ora… sono cinque anni che aspetto quest'ora… forza, in piedi!»
Perla spalanca le finestre, va verso il letto della madre, le dà un bacio, le sorride, poi raggiunge il bagno, si chiude la porta alle spalle. La madre s'infila sotto le coperte, al riparo dalla luce, per guadagnare qualche minuto di riposo.
«Mamma!» protesta Perla, da dentro il bagno, come se avesse visto.
Cinque anni.

A casa, la stanza di Perla è immersa nella campagna. La notte, il frinire dei grilli diventa una melodia preziosa. Una voce, un sottofondo che appartiene solo agli abitanti delle distese. Nella stanza di Perla c'è una finestra, e lei è lì che vive. Alla finestra. Non nella stanza, ma nella finestra della sua stanza. Lì, a quella finestra, si sente parte di qualcosa. Da lì, campagna e cielo diventano una cosa sola. Perla, col naso all'insù, per ore, imbambolata a fissare porzioni di cielo. Naso all'insù, a scovare getti di luce bianca che piovono sulle campagne scure.
Perle cadenti che recano in dono un desiderio. Perla lo sa, è avara di desideri. Il desiderio è sempre lo stesso. Un desiderio che ha un nome, come fosse un amico, un animale domestico. Disneyland. Quante perle ha visto cadere per vedere realizzarsi quel desiderio. Quante volte, dopo la scia di luce spiovente, è andata nella camera della madre, febbricitante di gioia a dire: un'altra, ne ho vista un'altra. E la mamma: tesoro, ti ci porto, promesso, appena ci sarà l'occasione. Lei, Perla, a soli dieci anni, sa già che i sacrifici non vanno sprecati. Tutte le perle come lei, piombate dal buio del cielo nel buio della campagna e svanite per sempre, si sono sacrificate per portarla lassù, dove ha sempre desiderato: nel cielo, a formare, insieme a infinite altre, la meraviglia del cielo perlato.

È più vicina. Seduta al proprio posto, la madre al suo fianco. È più vicina, Perla, per la prima volta più dentro al suo mondo. Questa volta è un finestrino piccolo, doppio, triplo, sigillato. Un ovale di vetro spesso che la separa dalla sua immensità. È buio, ancora una volta. Perla, col naso appiccicato al vetro, cerca di guardare in alto. L'aereo striscia nel cielo senza il minimo sussulto. È un viaggio dolce. La mamma ha chiuso gli occhi, Perla ne sente il respiro, le rimbocca un golfino blu che è scivolato lungo il corpo. Una luce, intermittente, sotto l'ala, segnala una presenza. Il battito, intermittente, del cuore di Perla, un'esistenza. La catena di montaggio dei suoi pensieri lavora a pieno regime. Sto arrivando, pensa Perla. Disneyland, sto arrivando.

Le vetrate lasciano entrare una quantità di luce tale che sembra di essere all'aperto. La sala colazione del Disneyland Hotel è invasa da bambini di mezza Europa, già troppo vivaci, che scorrazzano attorno ai tavoli, alle sedie, si rotolano, inciampano, si rincorrono senza conoscersi. E i loro genitori che vigilano, ancora un po' assonnati, covando la speranza che il proprio figlio subisca degli alti e bassi energetici nel corso della giornata. Le principessine fanno già la coda alla postazione del trucco, indecise su come agghindarsi. Perla sta bevendo un succo d'arancia, guarda fuori: Disneyland è lì, s'espande a macchia d'olio sotto i suoi occhi, finalmente. La madre osserva le bambine vestite da principesse, sorride, con la mente a trent'anni prima.
«Perla, amore» dice «vai a truccarti con le altre bimbe…»
Perla si alza dalla sedia, il bicchiere mezzo vuoto in mano. Trangugia in un sorso l'ultimo residuo d'arancia con lo sguardo fisso sul regno Disney, al di là delle vetrate.
«Andiamo, mamma» dice, come in trance.

Gli altoparlanti della Main Street mandano una musica da fiaba. Il sole si posa sui visitatori del parco come una carezza. I genitori spingono passeggini e carrozzine e nel frattempo badano a un primogenito eccitato. Sulla Main Street sono i colori a dominare. La luce di questa giornata non fa altro che entrare nel colore e animarlo. Perla guarda le polo dei papà, le borse delle mamme, i tatuaggi dei ragazzi, gli occhi di una donna africana, gli edifici in stile Missouri primo novecento, vede laggiù, sul fondo del viale, il rosa, il blu e l'oro del castello della Bella addormentata: tutto le sembra colore che vive di vita propria. Entra in un negozio, cammina vicino alla madre che non resiste e compra delle caramelle spugnose, rosa e bianche. La ragazza della cassa sorride. Sorridono tutti sulla Main Street. Anche la madre di Perla: entra subito nell'atmosfera e sorride all'indirizzo di gente che lavora, bambini, giornalisti, giovani coppiette. Perla più che sorridere si guarda intorno e respira. Ha visto cadere più di cento stelle per tutto questo. È attratta dalle finestre, dalla loro forma, dalla loro diversità. Dalla grana delle cose. Cammina ancora una volta con il naso per aria, spiando il percorso della mamma per non allontanarsi troppo. Va a sbattere contro un uomo alto, un papà, con un peluche di Topolino e uno di Minnie sottobraccio, due buste azzurre in mano, una spada laser nell'altra che spinge anche una carrozzina. L'uomo si preoccupa, si china verso di lei, sollecito.
«Tutto bene» dice Perla «non mi sono fatta niente.»

Si ferma sotto una finestra, c'è una scritta, in inglese.
«Mamma, mamma…»
La mamma si gira.
«Cosa c'è scritto su quella finestra lassù?»
La mamma legge, ci pensa un attimo.
«Se lo puoi sognare» dice «lo puoi realizzare.»
Perla assume un'espressione fiera, come se lei, più di chiunque altro, in quel parco pieno di persone, potesse capirla, quella frase. Come se conoscesse a memoria, palmo su palmo, lo sconfinato territorio del sogno.

I personaggi Disney girano a fare foto e firmare autografi. La madre di Perla quasi s'avvinghia a un enorme orso azzurro. Uno yeti con macchie bluastre dal sorriso furfantesco, come quello di certi bambini, che si accompagna a un occhio verde con un elmetto sulla testa. Perla sorride, la mamma sta posando insieme a tutti i personaggi che incontra sulla Main Street.
«Grazie» dice.
L'enorme yeti dal pelo azzurro fa un inchino di riverenza, poi si prepara alla prossima foto.
«Ti stai divertendo?»
«Sì, mamma.»
«Che succede, tesoro?»
«Voglio andare a vedere le attrazioni dello Spazio.»
«Tesoro, ci andiamo. Adesso facciamo un altro giretto. Visitiamo il Castello della Bella Addormentata, poi dobbiamo andare a vedere Phantom Manor. Poi è il turno dei pirati. Poi stiamo un po' a Fantasyland. Per finire…»
«Mamma, ma domani partiamo…»
«Tesoro, vedrai, c'è tempo per far tutto.»
Cip e Ciop s'aggirano quasi indisturbati nei pressi della rotonda, di fronte al Castello Rosa.
«Perla, amore, sbrighiamoci… altrimenti, se gli altri se ne accorgono, inizia la ressa…»
L'ennesimo lampo bianco, in tutta quella luce.
«Grazie signor Cip… e grazie a lei signor Ciop… e grazie a te, amore di mamma tua…»
Perla sorride, la madre si riprende la macchina fotografica.
«E ora, mega zucchero filato!»
La ragazza del banchetto ha un sorriso bianchissimo, che spande la luce del sole tutto intorno alla macchina dello zucchero filato.
«Bonjour, madame.»
«Bonjour…»
«Barbe à papa?»
«Oui…»
«Deux?»
«Oui, merci.»
«No, mamma» interviene Perla «io vorrei una macedonia.»
Adesso è la madre a essere una bambina, una bambina di mezza età.
«Oh, pardon… une salade de fruits… » si corregge «et une barbe à papa…»
La ragazza non smette un attimo di ridere. La sua è una serenità che non lascia scampo. Come quella della madre di Perla.
«Merci, merci beaucoup» dice, mentre tira fuori i soldi per pagare. E il suo essere raggiante affronta sul campo quello della ragazza, come in una sfida all'ultima smanceria.
La madre di Perla è lì, nell'esatto baricentro di quei colori vivi, passeggini, negozi, personaggi, star dell'animazione, attrazioni, architettura, guide multi-lingue. Un'istantanea zuccherina, che lascia le labbra appiccicaticce, trionfante, nel falso movimento dell'umanità più reale che ci sia, inglobata nell'incantata bolla dell'irreale di tutti. Perla è lì vicino, un po' in disparte. È lì, ma il suo sguardo no. Il suo sguardo è tutto pieno di un'attrazione enorme, poco distante.

Ci sono le principesse, dentro la mamma di Perla. E ci sono le principesse, ognuna accompagnata dal proprio principe, a girare per i tavoli del ristorante. Sono bellissime: coppie sfavillanti che evocano tutta la magia che il mondo, quello vero, non sa esprimere – non con la stessa, naturale, grazia. Ci sono queste coppie di principi e principesse, che fanno la gioia di bambine inappetenti. C'è Biancaneve, di una bellezza artica. Belle, accompagnata dalla sua Bestia. Cenerentola e il Principe Azzurro. La madre di Perla si mette in posa, in mezzo alla coppia, quasi a pretendere un po' di quella dimensione irreale. Chiede autografi ai sovrani: semplicemente il nome: Cinderella, Ariel.
«Mamma, ordiniamo?»
«Amore, non essere timida. Fai le foto con le principesse.»
Perla guarda la madre. In questo momento può vedere la sua vita passarle davanti. Una piccola azienda agricola portata avanti tra mille difficoltà e sacrifici. Le ramanzine della banca: rientrare del fido! Le levatacce quando fuori è buio, freddo. Il cugino di Perla, bracciante stagionale, un bravo nipote che dà una mano alla zia, a tempo perso, in attesa di un vero lavoro.
«Vado in bagno, tesoro, quando torno ordiniamo, va bene?»
Alzandosi dalla sedia la madre di Perla urta una principessa di colore, con un abito bianco, un diamante appeso al collo e una corona in testa, simile a tre piramidi intersecate tra loro.
«Oh, pardon…» dice sorridendo.
La madre di Perla porge il foglio degli autografi: Tiana.
Si avvicina un cameriere. Porta una bottiglia d'acqua che appoggia sul tavolo. Il cartellino spillato sulla camicia recita il nome: Neil.
L'uomo guarda Perla e sorride. Accenna leggermente col capo un sì. Vai, sembra volerle dire Neil, se lo puoi sognare lo puoi realizzare. D'un tratto Perla se lo vede per un attimo vestito da astronauta, come il poliziotto dello spazio Buzz Lightyear di Toy Story.
«Ma allora tu sei quel Neil, quello dell'Apollo 11?»
Il cameriere sorride, il viso dolce sembra accompagnare gli occhi di Perla in un'impennata di abbagli, all'uscita di un tunnel di luce.
Basta guardare attraverso la finestra, dice Neil con quel sorriso dolce, vai Perla, l'hai sognato così tante volte, ora è il momento di realizzarlo.
Perla dà un'occhiata alla porta del bagno: della madre non c'è traccia. Si alza e corre verso l'uscita del ristorante.
Il vecchio Neil assume l'espressione di chi ama tracciare, con una mina morbida, la traiettoria perfetta che lega il punto di partenza di un desiderio a quello di arrivo di un destino.

Il cielo sui tetti di Londra è puntinato da milioni di perle. Peter vola insieme a Perla. Ti piace, chiede. La bambina non sa che dire. È semplicemente rapita dal volo e da Peter, che la tiene per mano. Volano sulla città, le loro ombre sono un'immagine troppo distante.
Finalmente Perla è dove ha sempre desiderato di essere. Nel luogo in cui deve stare per definizione. Adesso che vola tra le altre perle, sente di non desiderare niente di più. È una babele di quieta energia il volo di Perla, senza nessuna finestra oltra la quale spiare. Nessuna finestra a fare da anticamera delle ambizioni, questa volta. È il riflesso dell'ombra, chiaro e netto. Il riflesso di quell'ombra che rende invisibili. Invisibili ci si nasce. Col tempo ci si accorge solo di esserlo. È una dote, una capacità manifestata più volte negli anni, un impegno da rispettare, un'occasione da onorare. Essere di vetro, una sagoma perfettamente invisibile, presenta i suoi vantaggi. Perla lo sa. Quando si vive a una finestra, nella campagna laziale, isolata da tutto e tutti, si è invisibili. Quando la casa più vicina dista quasi un chilometro, lo si è. Il padre di Perla, lui è stato l'invisibile per eccellenza. E anche adesso, quassù, ad accarezzare le lancette del Big Ben, con una città che dorme, il suo volo che si posa come una benedizione sul tramonto di lampioni di Londra; anche adesso Perla è invisibile. Ma ora non le importa. Ora ha tutto ciò che ha sempre sognato. Ora può tendere alle altre perle del cielo buio, nell'indifferenza della città assopita, intercettando col suo volo il miraggio di chissà quante persone. Quando un invisibile fa della sua natura una forza, riscatta le forme e l'esistenza di tutto il suo popolo, in un semplice volo.
Poi l'attrazione di Peter Pan esaurisce la sua corsa. Perla scende dal piccolo vascello volante.

Ti vedo. Così piccola e così coraggiosa, figlia mia. Tanto ostinata da non lasciare dubbi: predestinata. Sei forte, Perla, dentro di te hai una forza rara. E non posso che guardarti e farmi da parte. Guardo te e le altre persone sedute sui vagoncini del missile. Negli occhi di quella gente c'è entusiasmo, adrenalina, timore. Nei tuoi, bambina, qualcosa di più forte, molto più forte e luminoso. Va' amore, decolla, io t'aspetto qui. T'aspetterò per tutto il tempo necessario. Sono con te, bambina, ma ti guardo da qui.

Perla è seduta, i sostegni di ferro automatici la cingono con fermezza. Il cannone spaziale punta dritto ai confini dell'Universo. Oltre la Luna sorridente, la perla più grande mai esistita. Oltre le nebulose, oltre le comete, oltre l'esplosione di una supernova galattica mozzafiato. Perla è lì, dove il concetto di oltre può essere incarnato solo da un invisibile come lei. Sospesa, pronta al decollo. Il conto alla rovescia è partito. Perla appoggia le palpebre per entrare nella storia. Finalmente nella sua storia. E un'aria spensierata va a posarsi sui lineamenti del viso, come la sabbia sul lungomare di una spiaggia muta, nella quale echeggia solo il verso superbo di un gabbiano.
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Messaggio Da kissthetulips Sab 28 Ago 2010, 23:57

Facciamo testa o croce

Carla D'Alessio

Noi da piccoli siamo cresciuti così. Io sulla vecchia Graziella di zia e lei sui pattini del fratello. È anche per questo che siamo diversi, io e tua madre.
Alice ammonticchia cocopops, intanto che mi decido ad aprire bocca. Eppure ho scelto le parole tutta la notte per spiegarle come stanno le cose, ora almeno ci devo provare.
Del resto, mia figlia ha otto anni, ma è più assennata di me, che pure sono il padre: non ha mai fatto domande sul perché dorme tre giorni da me e tre da Miriam o sul come mai per lei le vacanze al mare, i Natali e le Pasque raddoppino. Si limita a disegnare un papà vestito di nero e una mamma tutta colorata, dacché andava all'asilo. Ci indica e spiega: lui è Nicola e lei è Miriam. NicoeMiri sono molto amici.
Noi non siamo mai cresciuti perché non siamo mai cambiati, tutto qui, non ci sarebbe altro da aggiungere, figlia.
«Nico, devi partire?» indovina e mi viene in soccorso lei, come sempre «Va be', da lunedì a mercoledì resto da Miriam. Adesso posso fare colazione?».
Le prendo una ciotola dalla vetrinetta. Neanche il tempo di posarla sul tavolo che Alice si scompiglia la frangetta. Mi basta il suo sguardo per capire e correre subito ai ripari: «Peter Pan sta volando tra le pentole sporche».
«Non è vero» mi smentisce. «Lui sulla mia tazza sta lasciando Londra con Wendy».
Apro la lavastoviglie ancora piena, le sciacquo il tazzone della sua favola preferita e lei si acquieta sbriciolando i cereali scuri nel latte.
Non devo stare via per poco, mi trasferisco in un'altra città, a 600 chilometri di distanza da te. Questo dovrei dirle.
«Nico, però “l'isola che non c'è” esiste» afferma Alice. Lo so e le intono Bennato: «Seconda stella a destra, questo è il cammino e poi dritto fino al mattino...».
«E Trilli pure» s'illumina lei, trovandomi, per una volta, preparato. «Tiziana l'ha proprio conosciuta, ma si è dimenticata di farsi prestare la polvere di fata.»
«Che peccato. A quest'ora, la tua amica volava a scuola in due minuti.»
«Se non mi credi» si indispettisce Alice «ho la foto come prova. Ma se te la do, tu e Miriam poi mi portate a Disneyland?»
Non è mai successo che azzardasse un'ipotesi di viaggio con tutte e due insieme. Non posso fare finta di niente.

«Spiegami bene: invece di dirle del trasferimento, le hai promesso di portarla a stringere la mano di Pippo e Paperino?»
Miriam si sfila gli occhiali con la montatura rossa e si strofina le palpebre. Credeva che fossi finalmente passato ad aggiustarle la caldaia, dopo aver accompagnato Alice a scuola.
Sei sempre spettrale di prima mattina, così m'ha detto appena m'ha visto. Lei ha i capelli attorcigliati intorno a uno stecchetto di legno, indossa un pigiama a rombi gialli e beve una tisana alle erbe davanti al computer.
«Ho pensato che magari le parlo lì della novità» chiarisco. «Tanto sono tre giorni. Se sei d'accordo, potremmo prendere un pacchetto».
Lei mi guarda come se fossi un suo alunno, di quelli furbi che durante le interrogazioni non capisce dove vogliono arrivare.
«Se sono d'accordo?»
«Se vieni anche tu, è più semplice» sospiro.
«Ma quando sarebbe?»
«Il prossimo weekend, per forza. Arriviamo a Parigi di giovedì sera e torniamo di domenica, io comincio il lunedì.»
«E non sei felice?» mi si lancia addosso euforica e mi pizzica le guance. «Da giovine non facevi che ripetere che saresti dovuto nascere a Bologna.»
Bologna, però, Miriam la pronuncia con la prima “o” molto più chiusa della mia, lei ha studiato dizione. Non rispondo, né, tanto meno, la scosto.
Forse capisce che ho bisogno del suo sostegno, perciò taglia corto con le moine e annuncia: «Dai, vedo come liberarmi.»
Invece non è finita lì, saltella in giro e inizia l'elenco: «C'è il premio poesia settimana prossima, in terza ho la recita. Poi, tra l'altro, Giorgio mi aveva chiesto…»
Giorgio, no. Mi alzo, la prendo di spalle mentre si sta arrampicando sulla scaletta per posare un volume nel rigoroso ordine alfabetico dei suoi scaffali, la scaravento sul divano, lei ride per il solletico e scalcia all'aria.

Sull'aereo della Air France, Alice ha voluto il panino con il burro d'arachidi come me. Miriam, invece, ha spezzettato quello al prosciutto. Da qualche anno, è sempre a dieta. Avrà dimenticato tutte le pizzette che mangiavamo all'alba, di ritorno dalle discoteche. E anche che a ballare mi ci trascinava, io me ne stavo fermo e annoiato in un angolo.
Miriam non può ricordarsi tutto, impara troppe cose ogni giorno: in un'ora e mezza di volo, ha letto tre quotidiani. Intanto Alice mi ha raccontato della meta principale del nostro viaggio e del vero volo che ci aspetta: il Peter Pan's Flight.
«In valigia ho infilato anche una sveglia» mi confessa sottovoce. «Lo sai che Uncino, quando sente il ticchettio, si spaventa perché gli viene in mente il coccodrillo, no?»
«Ma figurati, scricciolo» Miriam alza a malapena gli occhi dalla sua rassegna stampa e punzecchia: «Nicola, di Peter Pan conosce solo la sindrome.»
«E invece la storia la conosce» mi difende Alice. «Papà sa pure la strada per l'isola.»
Pa-pà. Due sillabe che non era mai riuscita ad attaccare.
Miriam si stritola il giornale sulle ginocchia e la guarda per un istante, come facesse fatica a riconoscerla. A riconoscerci. L'aranciata mi va di traverso.
«Bevi troppo veloce, come Tiziana, che poi si sporca sempre» si diverte mia figlia, passandomi una salvietta.
Miriam continua a fissarci, mentre io mi pulisco e Alice riprende a parlare di Peter e i suoi amici, di com'è bello che vivano tutti insieme e non crescano mai. Poi domanda: «Papà, quanti anni avevi quando sei diventato così alto?»
Il pilota nell'altoparlante ci informa che stiamo per atterrare all'aeroporto Charles De Gaulle, aggiunge il cielo sopra Parigi è sereno e augura un buon soggiorno. Io di solito non capisco una parola di francese, stavolta invece capisco tutto. E realizzo che non è stato un lapsus, Alice ha cominciato proprio a chiamarmi papà. Miriam, infatti, mi punta con uno sguardo invelenito, lo stesso di quando un'altra ragazza mi avvicinava e lei si ingelosiva.

Quando abbiamo messo piede a Disneyland, nel nostro albergo ispirato ai western di Hollywood, Alice è impazzita di gioia nello scoprire il letto a castello affianco al matrimoniale. Lei scende e sale, non riesce a decidere se dormire sopra o sotto; io, invece, accendo e spengo una fantastica lampada a forma di stivale che sta sul comò.
«Vogliamo darci una calmata?» sbotta Miriam, agganciandosi le mani ai fianchi. «Secondo te, questi disegni sulla moquette sono pipistrelli?» le chiedo per coinvolgerla nel nostro entusiasmo.
«Papà, sono corna di toro» svela Alice dal bagno e urla: «eihhh, vieni, qui invece i cavalli corrono sulle mattonelle e il sapone ha le orecchie di Topolino». Miriam mi sbuffa in faccia, mentre le passo davanti. Io cerco di acchiapparle il naso, ma lei si divincola: «Voglio proprio vedere papà come se la cava, a spiegarle che andrà a vivere lontano».
Ci resto male, posso capire che le dia fastidio essere chiamata ancora Miriam, ma è il mio momento, è cattiva a volermelo rovinare.
«Papà, allora, vieni?» ritenta Alice.
«Ma non vuoi cambiarti per andare al ristorante delle principesse?» s'intromette la madre.
«Eh, certo. Adesso non ti restano che le principesse. Sei veramente infantile» dico. E sì, lo dico a voce alta.
«Ha parlato quello che a trent'anni fa ancora il metallaro» controbatte lei.
«Potresti cambiarti anche tu, magari se indossi una maglia chiara per una volta, fai meno becchino.»
«Papà fa il tecnico radiologo, non quest'altro lavoro che non conosco» mi salva ancora Alice, tirandomi in bagno. Poi si ferma e chiede alla madre: «Miriam, me l'hai portato il vestitino rosa, vero?»
Per ristorante delle principesse, Miriam intendeva quello di un altro hotel Disney.
Effettivamente è un palazzo lussuoso. Poi è rosa come il vestitino di Alice che subito ha notato Trilli sullo stemma e ha trattenuto il fiato di fronte alla maestosa scala della hall. L'ha trattenuto anche Miriam, con mia grande sorpresa. Non l'avrei mai detto che esistesse meraviglia capace di sbrecciarle la serietà dalla faccia.
Le vetrate del ristorante affacciano su Main Street. Miriam, naturalmente, ha studiato la guida, mentre noi facevamo la doccia.
Adesso sfoggia il suo francese con il cameriere per scegliere il vino e mettere in pratica le conoscenze acquisite durante un corso di degustazione. Io al massimo saprei distinguere la Falangina dall'Aglianico, giusto perché il primo è bianco e il secondo è rosso. È indubbio che Miriam sia migliore di me.
«Dovrei imparare a tener ferme le mani quando parlo una lingua straniera» dice lei, mentre il sommelier si allontana.
«Ma tu gesticoli sempre» le faccio notare. «Però sei carina lo stesso, non hai nulla da invidiare alle principesse in carne e ossa.»
Poco prima è passata Cenerentola.
Miriam scuote la testa scettica, non ho mai capito se i miei complimenti le suonano soltanto fuori luogo e inutili, oppure un po' la lusingano. A conti fatti, sono anni che se li lascia scivolare addosso. Entrambi rivolgiamo la nostra attenzione ad Alice per cambiare discorso.
Nostra figlia divora patate col formaggio e sobbalza ogni volta che un personaggio entra a salutare. Li conosce tutti. Riesce a distinguere persino Cip da Ciop. E ha le sue preferenze. Quando, infatti, arriva Minni, la va ad abbracciare.
«Domani, alla sfilata, passa anche Peter» ci informa telegrafica, tornando al tavolo. Gliel'ha detto un bambino con il quale si sta fiondando di nuovo al buffet.
«Mi sa che non sarà facile parlarle del tuo lavoro» torna all'attacco Miriam. Senza la durezza di prima, però.
«Anche perché tu non mi stai aiutando» ne approfitto subito.
«Magari domani sera ci proviamo. Lasciamola spensierata almeno un giorno intero.»
Sono d'accordo, ma non sono abituato alla prima persona plurale, a quel “noi” così ripetuto. Il passo successivo sarebbe sostituire il pronome con il sostantivo “famiglia”. Certo, a Miriam non lo dico. Sarebbe sciocco, lei minimo minimo scoppierebbe in una risata isterica. Il “noi” è stato accantonato presto, Alice aveva soffiato da poco la prima candelina. Miriam, di anni ne aveva diciannove e preparava il secondo esame all'università. Io qualcuno in più, ma la rendevo troppo nervosa e tornai a vivere allo studentato.
«Nico, però non ti capisco» e Miriam mi spazza via tutti i pensieri nostalgici «devi accettarla tu per primo la realtà.»
Prendo fiato, da tempo tengo da parte una perla di saggezza ed è l'occasione adatta per usarla: «Pattini da dio e leggi tanti libri, ma non sei mai veramente riuscita a staccare i piedi da terra.»
«Tu sei imbranato, leggi solo la gazzetta dello sport e neanche tu ci sei mai riuscito.»
Eccola qua, sempre con la frase pronta e definitiva per incepparmi. Dal liceo, quando la professoressa di italiano credeva che i temi me li scrivesse lei e anche l'unico sette e mezzo che presi, pure quello fu merito suo. È vero che fu Miriam a stroncare la mia carriera di ripetente.
«Papà, lui è Pierpaolo» ritorna per le presentazioni Alice, trascinandosi dietro un bimbetto biondo. «Pierpaolo, lui è il mio papà e lei...»
Alice si ferma, spizza Miriam con lo sguardo e poi scandisce: «Lei è la mia bellissima mamma. Possiamo andare ad aspettare Pluto sulle scale?»
Miriam resta senza parole. Tocca a me concedere il permesso.

La prima notte, facciamo testa o croce e Miriam si aggiudica il matrimoniale tutto per sé. Alle sei e mezza di mattina, Alice è già avvinghiata alla scaletta del castello e mi mette al corrente delle nuove disposizioni riguardo l'indomani: «Mamma dorme sopra e io nel lettone sola.»
A colazione, ci abbandona per infilarsi in una sfera di plastica gigante e trasparente. Ci ruota dentro con le braccia allargate e si capovolge su un tappeto verde.
«Sembra l'uomo vitruviano di Leonardo» commenta Miriam, aggiustandosi gli occhiali da vista con la punta delle dita.
«Quello che sta sull'euro, giusto?»
«Caspita che velocità di pensiero, stamattina» mi sfotte lei.
«Perché non usi le lenti a contatto? Magari ti dimentichi di atteggiarti a intellettualoide.»
Miriam non mi risponde a tono, anzi dice che ho ragione, sono più comode sulle montagne russe e i giri della morte ai quali io non parteciperò. E corre in albergo a seguire il mio consiglio. Intanto convinco Alice a uscire dalla bolla, ho paura che rotolandosi arrivi a travolgere le tende degli indiani piazzate tra gli alberi.
Finalmente riusciamo a partire. La prima sosta è davanti a una mongolfiera ancorata su un laghetto e per fortuna oggi non c'è vento. Causa vertigini, spero che non arrivi la minima folata fino a domenica e a mamma e figlia non venga in mente di volerci salire. Mi siedo comunque, mentre loro due si lanciano sulla pista di pattinaggio.
A svolazzare sul ghiaccio, in inverno, è capitato che le accompagnassi. Certo, a vederle piroettare in aprile, mentre fanno un girotondo e il sole lo illumina a spicchi alternati, penso che solo uno stupido se ne starebbe fermo su una panchina ad aspettare di perderle.
E invece sono loro a sfilarsi i pattini e a tornare da me, non ho avuto neanche bisogno di alzarmi.
Passando per una zona di negozi, dico a Miriam che forse, da queste parti, la trova, un'edicola. Lei risponde allegra che non c'è proprio tempo per le notizie e anticipa che domani vuole salire là sopra, indicando un ascensore altissimo che scende in caduta libera dall'ultimo piano di un albergo abbandonato. Tower of terror, si chiama.
Le strappo la guida da mano, è il caso che cominci a orientarmi. Sulla carta sembra facile: sceglierò solo le giostre contrassegnate dal Wow di Minni. Già il Gulp di Pippo segnala le più avventurose. Per non parlare dello Uack di Paperino, quelle sono per i temerari.
Entriamo nel parco. Mi guardo intorno: siamo stati catapultati nella piazza di una cittadina americana ai primi del Novecento.
Alice si ambienta subito. Io e Miriam procediamo spaesati, confusi da tutte quelle trombette e dal vociare delle botteghe, i nostri cinque sensi si acclimatano gradualmente alla percezione di questo nuovo mondo.
È nostra figlia a fare strada, dritta al volo di Peter. Dalla stanza di Wendy, veniamo lanciati tra le stelle del cielo. Sotto di noi, le luci delle case di Londra diventano via via minuscole. E nell'isola che non c'è, ritroviamo tutti. Persino Capitan Uncino. Persino noi tre.

Poi sono stati i giorni a volare ed è scattato qualcosa per cui eravamo noi due a trascinare Alice su quell'attrazione piuttosto che su un'altra. E nostra figlia che ci accontentava un po' per uno. Indiana Jones alla madre, Phantom Manor per me. Nella palazzina infestata dai fantasmi sono entrato tre volte, anche Miriam ha ceduto al fascino degli spiriti ed è stata con l'orecchio teso ad ascoltare il cuore che batte nella tomba del cimitero sul retro.
Io ho ripagato salendo sul Rock'n Roller Coaster, mi ha convinto la colonna sonora degli Aerosmith a farmi sparare su una montagna russa a 100 km all'ora.
L'ultima sera, Alice fa correre la sveglia sulla sbarra del letto a castello. L'indomani avrebbe tirato Uncino per la giacca e l'avrebbe spaventato ancora. Miriam, invece, prepara le valigie e commenta entusiasta il Cinémagique del pomeriggio.
«Papà ha un album dove ci sei solo tu nelle foto e io neanche in una» butta lì Alice, di punto in bianco. Mi chiedo come e quando le sia capitato tra le mani.
«Forse sono foto di quando non eri ancora nata» liquida la faccenda Miriam.
«No, ci sei solo tu e sei sempre diversa: sul motorino, al mare, coi capelli corti, lunghi» si impunta Alice. «Io sono in quelle in cui hai il pancione, ma poi continuano che sei di nuovo magra.»
Miriam si stranisce e mi punta uno sguardo interrogativo addosso. Io non saprei che spiegazioni darle.
«è vero?» mi bracca con la sua voce più inquisitoria sulla soglia del bagno.
«Sì, è vero, è vero» la liquido, chiudendomi la porta alle spalle.

È stato al termine della parata dei personaggi di domenica pomeriggio, mentre Miriam faceva shopping in un emporio e Alice salutava il carro di Peter e Trilli che mi sono ricordato di aver fallito la mia missione.
Poche ore e saremmo tornati alla nostra vita. E il passaggio sarebbe stato scioccante per chiunque. Figurarsi per Alice, che avrebbe dovuto declassarmi a un punto sulla cartina geografica dell'Italia.
«Possiamo andare, ho la polvere di fata» mi scuote mia figlia. Dice che l'ha messa in tasca e non può mostrarmela.
Non insisto, spero solo che ne abbia a sufficienza.
Poi Miriam arriva con due mele caramellate, una marea di buste e mi sorride: «Ti ho comprato la maglietta di “Nightmare before Christmas”».

Durante il volo di ritorno, Alice si addormenta quasi subito con la testa poggiata sulle gambe della madre.
«Siamo stati bravi» sospira Miriam.
«Sì, bravissimi» rispondo ironico. «Stasera, quando le rimbocco le coperte, qualcosa dovrò pur dirle.»
«Ma tanto non torni il prossimo weekend?»
«Sicuro mi piazzano di turno.»
«È che nel parco siamo tornati più piccoli di lei.»
La guardo e non posso fare a meno di ridere.
«Sì, lo so che non siamo mai stati molto più grandi di lei» mi legge Miriam nel pensiero.
Il carrello dell'hostess passa, io prendo una birra, Miriam una bevanda frizzantina alla pera.
«Stai proprio diventando la fidanzata di Giorgio, ti manca soltanto il golfino sulle spalle e la erre moscia» la prendo in giro.
«Ma smettila. Tu piuttosto ti ricordi che Alice ci ha battezzato mamma e papà? Io avevo perso le speranze.»
«A te ti ha battezzato di riflesso» puntualizzo. «Aveva capito che altrimenti saresti stata inavvicinabile per tutto il weekend.»
«E forse si è decisa a chiamare te papà perché ha intuito che c'è qualcosa che ti turba.»
Può darsi. Però sono stufo di fare l'analisi a posteriori ai comportamenti di Alice. Io vorrei soltanto che dormisse serena, così, in mezzo a noi due, per sempre.
«Non funzionerebbe, vero? » chiedo a Miriam, senza neanche ascoltarmi.
«E tu come faresti senza scappatelle? » risponde lei pronta.
«Miriam, le sere in cui Alice è da te, le ho sempre passate sul divano».
«Pure quand'eri a Sharm con la tua collega?» rinfaccia.
«Se ti inventasti la varicella di Alice per rovinarmi quel viaggio. E io rientrai immediatamente.»
«Per tua figlia, mica per me.»
«L'avevo portata io a fare il vaccino, era impossibile che l'avesse beccata» e mi viene di prenderle la mano. «Tornai per te».
Miriam si sgancia. Restiamo in silenzio così, il respiro di Alice tra noi, ancora come un'ipotesi.
«Il fatto che tieni un album di foto solo mie, non significa niente» dice dopo un po' «Siamo troppo diversi e io non sono mai stata interessata a cambiarti.»
Ma è imbarazzata. Guarda fuori dal finestrino ed è buio, non c'è niente da vedere. Inoltre c'è l'ala.
Siamo troppo diversi, per esempio, io non sapevo come spiegarlo, all'omino del desk, che non volevamo il posto sull'ala e Miriam che avrebbe saputo farlo, leggeva distratta una brochure su dei profumi francesi.
«Tu poi sei coraggiosa solo sulle montagne russe. E non rispondere: tu neanche là sopra. Alla fine, ci sono salito.»
L'ho battuta sul tempo, adesso sentiamo con quale frase pungente proverà a replicare e su quali specchi si dovrà arrampicare.
Non risponde. Per una volta, Miriam tace.

Manca il pensiero felice. Me lo ricorda Alice la sera stessa, quando la infilo nel letto. Anche se muniti di polvere di fata, senza pensiero felice, non si solca il cielo.
«Domattina parto all'alba» le dico tutto d'un fiato. «Ti accompagna mamma a scuola.»
Alice lascia cadere subito il discorso: «Voglio tornare presto a Disneyland» mi dice.
E, per quanto assurdo, mentre le spengo la luce, spero che, nel sonno, stia volando davvero, a Parigi.
Torno nel salotto, Miriam è seduta sul divano con le gambe incrociate e tiene il volume del televisore basso. Mi fissa, ma non mi parla da quando stavamo sull'aereo. Sembra incredibile, eppure l'ho ammutolita. Finché si alza per salutarmi e me lo regala lei il mio pensiero felice: «Allora il prossimo weekend, se tu sei di turno, saliamo io e Alice a Bologna.»
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Messaggio Da Ospite Lun 30 Ago 2010, 16:00

Per ora ho letto il racconto dei Pirati e non mi è piaciuto per niente.
Assolutamente non magico. Evil or Very Mad
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Messaggio Da morgana Lun 30 Ago 2010, 16:05

Io ho provato ieri a leggere qualche racconto, ma non mi piacevano e li lasciavo a meta'............
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Messaggio Da Guendalina Blabla Mar 31 Ago 2010, 10:16

io sono molto prevenuta riguardo alla scuola Holden...ma li leggerò...promesso
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Messaggio Da Guendalina Blabla Mar 31 Ago 2010, 16:34

Letti...purtroppo avevo ragione, a me la scuola Holden piace poco come stile, parole ben arrangiate insieme ma sostanza poco interessante... il primo è terribile, a parte che mi chiedo se lo scrittore sull'attrazione ci è salito...visto che parla di vagoncini...e sinceramente non ho capito il senso della storia...l'ultimo è carino, banalino, ma non male e quello delle delle elipsi era complesso e strano, ma carino. quello di Perla non mi ha detto nulla.
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Messaggio Da Ospite Mar 31 Ago 2010, 17:00

Letto ora quello delle Ellipsi e devo dire che mi è piaciuto Very Happy
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Messaggio Da chicca Mar 31 Ago 2010, 21:04

magari stasera prima di andare a dormire ne leggo uno..
chicca
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